Giuseppe Vermiglio,
Natività e adorazione dei pastori, 1622 – Milano |
16
Dicembre
"Quest’anno il mio Presepe
è ancora vuoto. C’è il paesaggio, il fiume, il cielo e la grotta con la
natività, e nient’altro. Non è esattamente vuoto, più che altro è spopolato.
Non ci sono i pastori, gli zampognari, le pecorelle, gli angeli. Solo un
paesaggio e un bambino con la sua famiglia. Un vuoto da riempire: troppo
silenzio, troppa solitudine. E non ho più i pastori, li avrò smarriti ?
chissà … ; e, allora, quest’anno decido io chi mettere nel mio presepe,
davanti a quella grotta, in cammino verso quel neonato. Mi piacerebbe che
tutti i miei personaggi, in un modo o nell’altro, somigliassero a quel
bambino, che avessero il suo volto; ma non è facile scegliere: Dio ha sei
miliardi di volti. E quel bambino mi fissa l’appuntamento dinanzi a quei
volti.
E allora scelgo volti, quelli che Lui stesso ha trovato somiglianti a sé,
volti che hanno fame, che hanno sete, volti nudi, volti forestieri, volti
malati, carcerati. E mi ci metto anche io, perché se è nato in una stalla
non si scandalizzerà di me, della mia miseria. I volti dei potenti no, non
ce li metto nel mio presepe: volti sicuri, forti, vincenti; quelli,
comunque, non si metterebbero in cammino, ricordate Erode?
Ci metto quel volto che ha fame, Caterina, una mamma che ha perso il lavoro.
Porta in braccio e per la mano i suoi figli, da sfamare con i pacchi del
banco alimentare, da mandare a scuola, vestire, in cammino verso quel
bambino che piange per la fame, verso quell’altra mamma che deve dare da
mangiare … Anche Dio viene come un bambino: un neonato non può far paura, si
affida alle mani della madre, vive solo se qualcuno lo ama. Così le madri
fanno vivere i propri figli, li nutrono di latte e di sogni, ma prima ancora
di amore. Ci metto, poi, il volto di chi ha sete, Steven, ugandese di sette
anni che ogni giorno fa cinque chilometri a piedi: la strada dal suo
villaggio al pozzo più vicino, portando taniche gialle sulle strade di
polvere rossa, ché l’acqua, quella buona, l’hanno presa gli europei per
annaffiare le loro piante di tè. In cammino anche qui con le sue taniche,
nel mio presepe, verso quel bambino che sarà acqua viva, che smorza la sua
sete con le sue lacrime.
Ci metto quel volto nudo di Marja, che passeggia di notte, piena di timore,
sui viali di Bologna come un tempo passeggiava spensierata per le strade di
Tirana. Nuda, per vendere un corpo che non le appartiene più, schiava; nuda
della propria dignità di donna e di madre, della propria libertà. Nuda per
il piacere di uomini, nuda per il guadagno di altri uomini. Nel mio presepe
sta in una strada migliore, che la porta verso una casa, a ritrovare sogni e
speranze nella famiglia che non ha, dove l’uomo è un padre giusto, un
falegname, un uomo nuovo che conosce l’amore e la dolcezza. E, soprattutto,
il rispetto della dignità, e la tenerezza di una madre che le restituisce il
senso della sua vita. Metto nel mio presepe, ancora, il volto forestiero.
Non vi scandalizzate, il mio forestiero si chiama Marco, è italiano.
Emigrato a Londra perché il laboratorio in cui faceva ricerca non lo pagava
più. Paga un affitto sempre troppo caro e il prezzo di una nostalgia scavata
nel cuore. Non c’è una mattina in cui non scopra l’amarezza di svegliarsi
lontano dalla sua casa, dai suoi amici, dai suoi fratelli, dalla sua
ragazza. Come ogni altro straniero qui in Italia! Porta verso quella grotta
la sua vecchia borsa piena di sogni e un curriculum non letto.
Sulla sua carrozzina, nel mio presepe, ci metto il volto di Maurizio. Ma ci
vuole qualcuno che spinga la carrozzina, così scelgo il volto di Francesco,
un ragazzo sieropositivo. Maurizio che ha accettato con dignità la sua
malattia, Francesco che non si rassegna e vuole riempire di senso il tempo
che gli è dato. Si spingono a vicenda verso quella grotta, l’uno con le
braccia, l’altro con l’anima. Attraversano dolori e giudizi, paure ed
esclusioni, superano insieme barriere architettoniche e pregiudizi per
raggiungere il tenero sguardo di quel bambino, per abbandonarsi tra le sue
piccole braccia , per specchiare i loro mali nella sua santità. Perché c’è
qualcosa di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita. Ci metto, infine,
anche il volto di Giovanni, sedici anni e una condanna di omicidio sulle
spalle. Giovanni che si porta appresso il suo dolore tra carceri e
tribunali, che un giorno ha voluto liberare la sua famiglia dal mostro che
la divorava, Giovanni che sa che deve pagare per questo. Giovanni che ha
attraversato l’inferno ed ora è solo con il suo passato e fantasmi troppo
ingombranti da far tacere. Che cerca in quella grotta una via per sentirsi
ancora libero, ancora vivo. Che cerca da quel bambino il perdono che nessun
altro può dargli.
Guardo il mio presepe ora, cerco nel cuore delle cose, in fondo alla
speranza. Fisso gli abissi del cielo e poi gli abissi del cuore. Mi accorgo
che manca ancora qualcosa: ci metto anche il volto di angeli. Non va bene un
presepe senza angeli: Dio non invia soldati, ma angeli dentro l’umile via
del sogno, e non per risparmiare ai suoi il deserto o l’esilio, ma perché
non si arrendano in mezzo al deserto, non si rassegnino all’esilio. E allora
metto angeli veri, donne e uomini benedetti dal Padre nostro, quelli che
danno da mangiare, da bere, che visitano, lottano per i diritti e la
dignità. Quelli che amano. I volontari che curano le mense, quelli che
costruiscono pozzi e legami d’amicizia, quelli che si prendono cura, che
portano coperte e pane sulle strade delle metropoli e sulle spiagge di
Lampedusa, i medici che lasciano i loro poliambulatori nuovi di zecca per
curare malati senza diritti e senza soldi in ospedali di guerra, quelli che
amano la pace, che vivono con dignità, che sono fedeli alla propria
vocazione nella storia, quelli che non scendono a compromessi, che non si
vendono per nessun piatto di lenticchie. Quelli che ci sono sempre. Gli
angeli!
Eccolo il mio presepe: si è popolato. Pensavo non ci fosse nessuno e invece
lo scopro pieno di un’umanità bella, di donne , uomini e bambini senza
risposte e senza certezze, di un’umanità provata ma viva che non può fare
altro che abbandonarsi al mistero, cercare la Verità e la Vita nella luce di
una stalla, tenue ma molto più luminosa di ogni illusione umana, e scaldarsi
al fuoco della Speranza. Ed è su quella luce che, in questo Natale, fisso il
mio cuore. E da lì, riparto!" -- Don Mimmo Battaglia, presidente
della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche
Giuseppe
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